Con una recentissima sentenza, confermando la decisione di primo grado, la Corte di appello di Milano ha rigettato le domande di risarcimento del danno da mobbing e da demansionamento avanzate da un lavoratore nei confronti, tra l’altro, dell’Azienda Ospedaliera (difesa in giudizio dallo Studio Associato Chiello & Pozzoli) presso la quale prestava servizio.
In particolare, la Corte sulla base anche delle risultanze dei procedimenti penali intercorsi tra le parti, ha ritenuto corretta la sentenza di primo grado la quale, da un lato, aveva rilevato che il clima lavorativo conflittuale era stato alimentato dallo stesso lavoratore (ricorrente/appellante) e, dall’altro lato, che l’Azienda Ospedale aveva tentato di intervenire per ridurre tale conflittualità.
La Corte d’Appello ha quindi escluso il mobbing e, più in generale, la responsabilità datoriale richiamando la giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui “una situazione di forti divergenze sul luogo di lavoro non integra di per sé una situazione di nocività, perché il rapporto interpersonale, specie se inserito in una relazione gerarchica continuativa e tanto più in una situazione di contrasti interpersonali dettati da motivi carrieristici, è in sé possibile fonte di tensioni, il cui sfociare in una malattia del lavoratore non può dirsi, se non in via di esorbitanza nei modi rispetto a quelli appropriati per il confronto umano nelle condizioni sopra dette, ragione di responsabilità ai sensi dell’art 2087 c.c.” (Cass. n. 29059/2022).
La Corte d’Appello ha anche ricordato che secondo la Cassazione “la situazione di conflitto venutasi a creare fra le parti e accentuata dal lavoratore rileva ai fini della esclusione della configurazione della fattispecie di straining; a tal fine, il lavoratore che con le proprie condotte contribuisce a determinare una situazione di conflitto duratura nel tempo non può trovare ristoro ai sensi dell’art. 2087 c.c., in quanto a causa dei comportamenti dello stesso lavoratore non è possibile configurare una condotta stressogena del datore di lavoro nei confronti del dipendente” (Cass. n. 31485/2018).